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STORIE DI MODA E ARTE: FEDERICA GRAVATI

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Chi mi conosce da tempo e da vicino sa benissimo quanto io apprezzi le cose fatte a mano, specialmente se si tratta di capi di abbigliamento.

Sono cresciuta in una famiglia dove lavorare ai ferri e all’uncinetto era una tradizione molto diffusa che arrivava da mia nonna e che mia madre ha trasmesso a me ancora quando ero ragazzina. Oggi possono sembrano abitudini un po’ demodé, invece per me sono abilità molto preziose, come un piccolo patrimonio artigianale che credo non debba essere dimenticato.

Saper realizzare qualcosa con le proprie mani è una capacità che non tutti hanno: qualcuno lo impara, qualcuno ce l’ha come talento naturale. Ma soprattutto è un lavoro che richiede tempo, fatica e una costante grande cura per i dettagli perché nessun pezzo sarà mai identico a un altro.

Ho conosciuto Federica Gravati per puro caso, grazie al contatto di un’amica comune.

Un giorno Federica mi ha scritto e mi ha chiesto “Ti andrebbe di scrivere un articolo su di me?”.

La sua storia mi ha incuriosita per la sua capacità di aver unito l’arte – la pittura, per l’esattezza – alla moda. Una giovane designer con la passione per la moda che crea qualcosa di molto complesso, perché la pittura a mano di tessuti è tutt’altro che semplice, e soprattutto di unico. Le maglie sono realizzate con una tecnica che mescola pittura ad altri materiali.

Laureata in Disegno Industriale al Politecnico di Milano, Federica nasce professionalmente come pittrice ma la sua passione per la pittura la porta oltre la tela e si specializza in grafica per tessuti. Inizia a dipingere maglie e a collaborare con grandi brand internazionali, inizia a viaggiare molto.

Le sue creazioni ricevono l’attenzione di alcuni famosi brand del lusso finché ad un certo punto scatta qualcosa.

E Federica decide che è venuto il momento di camminare da sola. Così interrompe la produzione di maglie e si trova un lavoro da dipendente da Cisalfa. E inizia a lavorare a un obiettivo molto più grande: quello di iniziare un’attività per conto proprio e aspirare a una carriera internazionale.

Ho accettato la sua richiesta di scrivere questo post per raccontare brevemente la sua storia, apparentemente come tante, ma in realtà una storia che mi ha lasciato un messaggio davvero prezioso: quando finalmente metti a fuoco il tuo obiettivo, la strada all’improvviso si fa più luminosa e la visibilità migliore. E in un mondo così stracolmo di contenuti di ogni genere, se ci sono persone con una vera anima di pura creatività, il loro percorso merita di essere raccontato.

Purtroppo Federica non possiede più nessuna delle sue maglie, ma è pronta a fare il passo oltreoceano, dove una carriera da Fashion Designer la aspetta.

E io le faccio il mio migliore in bocca al lupo.

 

ESTATE 2018: IL MIO VIAGGIO AMERICANO

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Mentre scrivo mi trovo a bordo del volo che da Los Angeles mi sta riportando a Philadelphia. E’ il 28 agosto e il mio viaggio americano sta per concludersi: domani prenderò il volo per l’Europa che mi riporterà in Italia.

Questo non è un post di consigli utili su come viaggiare negli Stati Uniti, questa è la storia del mio viaggio americano.

Mi trovo negli Stati Uniti per la sesta volta nella mia vita, la prima volta è stata nel 2002, l’anno dopo l’attentato delle Torri Gemelle, prima di trovare un lavoro stabile, prima dei social e molto prima del mio blog. Gli Stati Uniti sono uno dei miei luoghi preferiti: fin da ragazzina ho sognato di partire, ho sognato di girare per questa grande nazione un pò alla volta, ho sognato di venirci a vivere, di trovarmi un lavoro che mi permettesse di viaggiare e venirci il più spesso possibile. I miei studi del liceo e quelli universitari (ho una Laurea in Lingue e Letterature Straniere con una tesi sulla Storia del Cinema) hanno poi accentuato il mio bisogno di viaggiare oltreoceano e oggi, alla fine del mio sesto viaggio negli States, ho già il magone pensando che devo rientrare in Italia.

E’ stato un viaggio bellissimo.

Avevo fatto un piano preciso, costruito un itinerario un pò per volta, nei ritagli di tempo, la sera dopo il lavoro. Volevo vedere qualcosa che non avevo ancora visto, fare un giro nuovo dare priorità a posti dove non ero mai stata, ho sempre la mia lista pronta. Così ho scelto la costa est e il punto di partenza sarebbe stato Philadelphia, nello stato della Pennsylvania. Philadelphia è una città più piccola rispetto a New York o Los Angeles, ricca di storia americana dove passato e presente si amalgamano e si contrappongono allo stesso tempo nonché città di Rocky Balboa, uno dei miei personaggi cinematografici preferiti. Ognuno ha le proprie ragioni per visitare un luogo, io ne avevo più di uno.

Prima qualche giorno a Philadelphia ad esplorare la città, visitando i luoghi dove è stata firmata la Dichiarazione di Indipendenza il 4 luglio 1776 e dove Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori, ha contribuito fortemente con la propria vita e col proprio lavoro alla costruzione degli Stati Uniti. Benjamin Franklin mi piaceva già quando dovevo studiare, dopo questo viaggio penso che sia stato davvero un grande uomo e una grande persona. Da Philadelphia il viaggio è proseguito in macchina verso nord, attraversando il New Jersey, lo stato di New York a nord di Manhattan – che effetto vedere lo skyline dall’interstatale! – e poi il Connecticut per arrivare nel Rhode Island, il più piccolo degli stati americani, per soggiornare a Newport. Dopo Newport il viaggio è proseguito  verso Hyannis, la piccola cittadina tanto amata da John F. Kennedy e Jackie dove c’è un bellissimo e curato museo dedicato al giovane presidente.

E da Hyannis partono i ferry per Nantucket, l’isola che finora era stata solo un posto immaginato nella mia mente grazie al romanzo Moby Dick di Herman Melville. Una gita di una sola giornata che non dimenticherò mai.

Da Hyannis poi ho proseguito per Boston, l’ultima tappa del mio giro sulla East Coast.

Perché questi posti?

Perché li avevo nella mia mente da tanto tempo: luoghi di cui ho letto nei libri o che sono stati teatro di film che ho visto e che mi hanno lasciato qualcosa addosso. La curiosità è come un motore che non perde giri e il tempo un immenso potere senza rimborso. Se c’è un luogo dove vorremmo andare, non possiamo stare a sognarlo soltanto: se davvero è importante, bisogna prendere e partire.

Immaginavo Nantucket con le spiagge bianche, il vento freddo, le barche nel porto e quella nebbia grigia – la Grey Lady – che all’improvviso nasconde l’orizzonte. Nel passato Nantucket è stato il centro mondiale dell’industria baleniera. L’isola non produceva niente dal punto di vista agricolo e anche se oggi è un luogo molto esclusivo pieno di case meravigliose dai costi assolutamente proibitivi, nell’800 l’isola era un vero inferno: la vita era durissima tra miseria e malattie e la gente che ci viveva si rese conto che l’unica grande ricchezza era l’oceano. Gli uomini si imbarcavano su grandi baleniere in cerca di fortuna, ricchezza, avventura o con la semplice scusa di stare lontani da terra. Ma il loro ritorno non era mai certo, per questo motivo le donne che rimanevano a terra, si misero a lavorare, ad aprire attività e divennero imprenditrici.

Durante l’organizzazione del mio viaggio mi sono imbattuta spesso in articoli su Nantucket che mi hanno motivata ancora di più: era destino che dovessi andarci.

L’isola è davvero magnifica: un piccolo gioiello e quinta essenza del sogno americano – anche se di pochi visti i costi immobiliari – dove andare in vacanza o a viverci durante la pensione. Case perfette, piccoli vialetti in ciottoli, graziose botteghe con insegne di legno (non sono consentite insegne al neon) e un museo che racconta la storia dell’isola e il suo legame con il mare e le balene. Un posto da vedere assolutamente!

Quando sono arrivata a Boston sono rimasta incantata: la più vecchia città degli Stati Uniti è immersa tra l’acqua e tantissimo verde, tra tradizione e storia. Elegante, frizzante, luminosa e molto sportiva, forse perché è la città di una delle più importanti maratone internazionali (che fu anche oggetto di un attentato qualche anno fa). A Boston si sono svolti alcuni dei più importanti eventi storici americani, fatti che si possono ripercorrere lungo l’itinerario del Freedom Trail: un percorso a piedi di circa 5km che si snoda lungo la città e che richiede scarpe comode, voglia di camminare e di scoprire cose nuove. Boston è davvero magnifica: l’atmosfera vivace è davvero coinvolgente e ha superato ogni mia aspettativa. L’ho percorsa sempre a piedi, scattando foto di continuo, riempiendomi gli occhi di cose che non avevo mai visto e rientrando in hotel sfinita e felice.

Ho avuto la fortuna di alloggiare nella zona di Newbury, poco distante da Copley Square e dal Boston Common, una scelta che si è rivelata perfetta perché la zona è piena di bei ristoranti e bei negozi per fare ottimo shopping. L’ultima cosa che ho visto è stata Harvard, situata a Cambridge che confina con Boston: che onore girare per il campus e visitare la libreria The Coop per poi uscire con la t-shirt universitaria ufficiale nella borsa!

Insomma, ho fatto tutto e ho cercato di non perdermi nulla. Il mio viaggio avrebbe potuto concludersi qui, a Boston. Ma c’era qualcosa d’altro che mi chiamava e che avrei voluto fare.

E’ stato per questo che ho deciso di aggiungere la tappa in California, dove ero già stata 10 anni fa e dove avevo lasciato alcune cose in sospeso. La tappa sulla California aveva tre motivi principali: Hermosa Beach, Malibù e il Griffith Observatory a Los Angeles.

Ho scelto di alloggiare a Long Beach perché così sarebbe stato più facile spostarsi in macchina lungo la West Coast senza stare troppo distante dall’aeroporto LAX. Che dirvi, sono stata in tutti e tre i posti che mi ero messa in testa di vedere. Hermosa Beach è immensa ed è il luogo dove è nato il surf in California: le onde dell’oceano arrivano lunghe, la sabbia è finissima e tenuta d’occhio dalle torrette alla Baywatch che tutti conosciamo benissimo. Il Pier è un ottimo posto per scattare delle foto e allungare lo sguardo più lontano.

Malibù invece è la spiaggia dove si trovano molto ville di persone famose: la vista sull’oceano è impagabile, non c’è nient’altro da guardare perché qui l’oceano si prende tutta l’attenzione che un occhio può reggere.

 

E infine il Griffith Observatory. Era rimasto fuori dal mio precedente viaggio in California per mancanza di tempo. Sono passati 10 anni. Il Griffith è situato su una collina in un punto panoramico da cui si vede la famosa scritta “Hollywood” e tutta Los Angeles. Il Colonnello Griffith era un appassionato di astronomia che donò alla Contea di Los Angeles tutta questa enorme area verde assieme al planetario: la contea era titubante se accettare o no, pensavano fosse un luogo troppo distante da raggiungere e che nuove strade sarebbero costate troppo. Una motivazione che fa sorridere oggi: le strade di Los Angeles sono larghissime e la città è davvero gigantesca. Ma soprattutto oggi il Griffith Observatory è meta di moltissimi turisti nonché di persone del luogo che salgono a piedi sulla collina per godersi il tramonto.

Il Griffith è un cattedrale di scienza e astronomia: sono questi i posti in cui guardando le stelle ci rendiamo conto di quanto siamo piccoli rispetto all’universo. E che il mondo non gira attorno a noi, siamo noi a girare con lui. Lo aveva capito anche Jim, il protagonista del film di Nicholas Ray Gioventù Bruciata, interpretato da James Dean nel 1955 e che fu girato proprio al Griffith Observatory.

 

E mentre scattavo tutte le foto possibili e ripensavo a tutte le volte che ho immaginato di venire in questo posto, due turiste si sono avvicinate per fotografare a loro volta il panorama.

“Perché fotografi il tramonto?

“Perché è bellissimo”.

“Ma è il giorno che muore. Io preferisco l’alba, perché so che ho tutta la giornata davanti”.

“Io preferisco il tramonto, perché posso rendere grazie della giornata che ho avuto”.

Sono ancora sul mio volo per Philadelphia, non sono triste perché il mio viaggio è alla fine né sono preoccupata del mio rientro al lavoro. Questo viaggio mi ha dato tantissimo: ho camminato, ho riso, ho esplorato, ho imparato cose nuove, mi sono commossa, divertita, meravigliata e ho portato la mia mente più lontano.

Ogni viaggio è un grande dono e io non voglio darlo per scontato, per questo preferisco stare sveglia e non perdermi mai nulla.

Daniela

 

(questo articolo è stato scritto a bordo del volo American Airlines da Los Angeles a Philadelphia il 28/08/2018)

 

 

 

 

 

NINA, PERCHE’: UNA BAMBINA A FUMETTI

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Questa è una storia tutta nuova.

E’ la storia di una bambina di nome Nina e di tutti i suoi perché.

Quando Diego Tarchini e Maria Chiara Bertuzzi  – designers e genitori di una bambina di tre anni – hanno hanno avuto l’idea di dare vita a un fumetto con protagonista una bambina di nome Nina, io ero uno dei contatti a cui avevano chiesto di mettere “mi piace” alla loro pagina Facebook.  Incuriosita e divertita dalla loro creatività, ho iniziato a seguire la piccola Nina che prendeva forma e colore nelle vignette e mi sono chiesta cosa potesse spingere due genitori a dar vita a un fumetto per raccontare la vita quotidiana con la loro bambina e tutte le sue curiose domande.

Nina è una bambina di tre anni, capelli biondi a caschetto e una curiosità acuta e piena di fantasia come tutti i bambini. Il personaggio di Nina è protagonista assoluto di ogni vignetta: Nina fa domande alla mamma o al papà che le danno una risposta. Una risposta che genera un perché.

Nessun altro personaggio oltre a Nina è presente nel libro: Nina racconta da sola la propria storia, ovvero la storia di una bambina di tre anni.

Ma cos’ha di speciale questo libro?

Nina, perché – tutti i perché di una bambina di tre anni è un’idea originale voluta da Diego Tarchini e Maria Chiara Bertuzzi per ovviare al fatto di dover postare troppe foto della loro bambina sui social. Ma spunto e fantasia non mancano ed è così che una bambina diventa Nina.

Il libro è una raccolta di vignette accuratamente disegnate con un tratto semplice e ben definito: Nina è a colori ma con bordi privi di imperfezioni, quasi a definire il suo carattere già incisivo pur essendo così piccola e a lanciare un messaggio ben chiaro: c’è una domanda per tutto.

I bambini fanno domande, gli adulti fanno domande, tutti facciamo domande.

Tutti abbiamo voglia di conoscere, di capire e imparare, ma soprattutto tutti vogliamo sapere il perché.

Nina, perché – tutti i perché di una bambina di tre anni è un libro educativo destinato a grandi e piccini, un cartone animato da sfogliare che fa sorridere, un modo di comunicare semplice e innovativo al tempo stesso. E’ un libro a fumetti adatto a tutti.

Diego e Maria Chiara probabilmente non avevano idea che un gioco potesse portarli alla realizzazione di un progetto così vincente: Nina, perché – tutti i perché di una bambina di tre anni ha conquistato le classifiche di Amazon  – dove si può ordinare – attirato l’attenzione di testate giornalistiche nazionali come il Corriere e La Repubblica oltre ad altre testate locali. In un anno e mezzo sono state pubblicate oltre 200 vignette e la pagina Facebook Nina Perché ha più di 15.000 followers.

Ma cosa ha a che fare una blogger di moda con un libro per bambini?

Ho seguito la storia di Nina fin dalla prima vignetta e mi sono detta: è una bella idea, è un punto di vista nuovo, c’è un potenziale enorme. Così ho contattato Diego e Maria Chiara e mi sono offerta di scrivere questo un articolo sul mio blog.

Il prossimo appuntamento con Nina è fissato per il 13 ottobre quando verrà inaugurata la mostra Nina, perché presso la Raw Gallery di Bergamo (via Torquato Tasso, 49).

Nell’attesa potete comprarvi il libro e leggerlo con o senza i vostri bambini.

E non smettete mai di chiedervi il perché.

Daniela

 

Ci tengo a segnalare che, ad eccezione della foto di copertina, le immagini presenti in questo articolo sono state gentilmente fornite da Diego Tarchini e Maria Chiara Bertuzzi che ringrazio moltissimo.