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PAROLE SPARSE DALLA QUARANTENA

Per settimane ho cercato di scrivere, ma i pensieri sono sempre attorcigliati in troppi angoli, le parole sparpagliate e con poco spirito collaborativo.

Da oltre un mese e mezzo la vita di questo intero paese si sviluppa dentro casa. Anche ieri una giornata di sole e a stento una nuvola sfumava dal tetto verso l’orizzonte.

E’ la quarantena, la prima della mia vita, una condizione di isolamento sociale di cui, fino a prima di questo momento, avevo letto e sentito parlare soltanto. E sperimentato di persona mai.

Ma, come si dice, c’è una prima volta per tutto.

Lavoro da casa da quel weekend di febbraio quando all’improvviso l’Italia ha dovuto iniziare a combattere un nemico invisibile. Se non fosse stato per lo smart working, ora le cose sarebbero più complicate, ma non è per tutti così, ovviamente. Il lavoro e il blog mi hanno tenuta attiva e impegnata, probabilmente anche lucida mentre tutto il resto si è preso nuove ore di sonno, ha cancellato le mie uscite a correre e ha richiesto una smisurata dose di attenzione mettendo a dura prova i miei occhi. Sono troppe le volte in cui sono arrivata a sera con lo sguardo provato, stanco per le troppe ore davanti a uno schermo, a lavorare, a guardare dati, a leggere notizie cercando di separare ciò che mi sembrava più attendibile da tutto ciò che distorce, falsifica e alimenta paure in modo subdolo e vigliacco, facendo leva sulla fragilità, l’ipocondria e l’ignoranza.

Mi sono svegliata una mattina e ho realizzato che la mia vita sociale privata e lavorativa, come quella di tanti per non dire di tutti, aveva traslocato online senza alcun preavviso. Non vedo la mia famiglia da oltre un mese, tutti gli amici più cari sono lontani km o comunque oltre confini che in questo momento non sono autorizzata a superare e il massimo della vicinanza consentita è al di là dello schermo dello smartphone, per chiunque. Videochiamate a pranzo, un numero infinito di riunioni via Skype, aperitivi e colazioni virtuali. Tanta socialità, fiumi di messaggi e conversazioni di gruppo, ma nessuno sguardo dal vivo, nessun contatto, nessuna voce in carne e ossa, nessuno abbraccio.

Quando tutto è cominciato non avevo idea di come sarebbe andata e le sensazioni che avevo addosso non mi davano pensieri facili con cui avrei dovuto imparare a convivere. Ho capito che sarebbe stata lunga, che era una cosa più molto grande di noi e che nessun film apocalittico che avessi già visto avrebbe mai potuto andarci nemmeno lontanamente vicino.

La mia vita da pendolare si è fermata il 24 febbraio e da allora non ho più preso un mezzo pubblico, non sono più andata in palestra, non ho più bevuto un cappuccino al bar, ho cancellato viaggi, eventi, serate fuori a cena, qualsiasi momento che prevedesse incontrare altre persone. Così, consapevole che nulla sarebbe stato più come prima per un bel po’, come il piccolo Kevin McCallister ho preso un foglio e un pennarello e ho messo giù il mio piano di battaglia. 

La mia giornata iniziava con la sveglia delle 7.15, che è stata messa al bando dopo pochi giorni perché in quarantena mi sveglio prima io della sveglia. Il primo sguardo è per le notifiche sullo smartphone, c’è sempre una newsletter che è arrivata di notte, perché poi non l’ho mai capito. Un po’ di esercizio per attivare il fisico – la mente non ne ha bisogno – poi doccia, un super tazza di caffè fatto con la moka ascoltando le notizie e poi via davanti al pc ancora prima delle 8.30. Ma non è una giornata di smart working come quando lavoravo da casa un giorno alla settimana. Tutto è stato stravolto: nessun caffè a mezza mattina coi colleghi, nessuno spostamento alla stampante, nessuna sala meeting da raggiungere dall’altra parte dell’edificio, nessuna pausa pranzo fuori. Tutto si è installato nel mio salotto e nel giro di pochi giorni la mia postazione lavorativa è diventata il posto di comando della mia giornata: il pc costantemente acceso, lo smartphone sempre carico, un quaderno per gli appunti, una penna a inchiostro nero e un paio di pennarelli colorati, che per me fanno più allegria. Lavoro più adesso di quando andavo in ufficio e non dovendo più prendere un mezzo per andare e venire da Milano, la domanda “a che ora finisco oggi” è come implosa senza che me ne accorgessi: il tempo si è allungato come una medicina amara a cui si aggiunge acqua per renderla più facile da mandare giù.

La pausa pranzo è sempre intorno alle 13.00, quarto d’ora più, quarto d’ora meno, ovviamente ascoltando e guardando le notizie. L’argomento è sempre lo stesso da settimane. Non ho cambiato le mie abitudini alimentari, continuo a privilegiare cibo sano il più possibile. Non mi sono improvvisata chef, non ho fatto torte né mi sono cimentata in ricette elaborate per passare il tempo. E quando ho dovuto smettere di uscire a correre ho cercato online una serie di esercizi da fare a fine giornata, per mantenere un minimo di attività fisica. Da oltre un mese e mezzo è diventato il mio appuntamento fisso, li faccio ogni giorno, weekend inclusi. So che è il corpo ad allenarsi ma forse mi fa più bene mentalmente.

In quarantena mi sono data delle regole, non ho trascorso un solo giorno in pigiama né in tuta da ginnastica perché non ce la posso fare e non vivo sul divano. Perché non sarei io. Mi trucco ogni giorno e mi vesto normale, come se dovessi uscire di casa. Solo i tailleur e i tacchi alti sono a riposo nell’armadio e nessuno di loro si lamenta. Ogni giorno indosso un paio delle mie sneakers, solitamente le mie Nike, e le t-shirts hanno già fatto almeno due giri. Ho dato libero sfogo a ombretti e rossetti e mi faccio una maschera viso ogni due giorni. A tempo perso coloro un poster gigante su New York che mi è stato regalato a Natale e che fino a questa quarantena era rimasto nella scatola. Ho creato una playlist su Spotify con la musica di questo momento, mettendo in fila le canzoni in cui sono inciampata per caso giorno dopo giorno o che mi sono tornate in mente da pezzi della mia vita di prima, per costruire nuovi ricordi, per ricordarmi di tutto quanto quando tutto questo sarà finito. 

Perché quando questo film maledettamente reale giungerà all’ultimo minuto di proiezione, molte cose saranno diverse, noi sicuramente non saremo più gli stessi e forse questo sarà una nuova versione di bene comune.

La sera, dopo un certo orario, ho detto stop a ogni tipo di notizie e mi dedico a tutti i film che mi sono persa al cinema oltre a nuove serie tv: la mia mente, dopo un pò, ha bisogno di cambiare argomento, di trovare spazio anche per altro. Solo il mio libro si è sentito solo e messo da parte: per settimane leggere è stata l’unica cosa che non sono riuscita a fare (ma l’ho finito proprio un paio di giorni fa!).

Alla fine di ogni giornata cerco di andare a nanna a un orario quasi normale, come farei se la mattina dopo avessi un treno da prendere all’alba per Milano. Certo, il sonno non è proprio la cosa più naturale in questo momento, ma ci si prova.

Non so se darmi una nuova routine sia stata questa grande idea ma il bisogno di mantenere il contatto con la mia normalità e comportarmi nel modo più naturale possibile è stato quasi una necessità, per restare vigile e concentrata sulla mia quotidianità, quella che ho a disposizione ora e che continua a non essere ancora davvero familiare. Ma tutto si può allenare: il coraggio, il cambiamento e soprattutto la speranza.

Certi momenti mi sono sembrati drammaticamente più bui o quasi insopportabili, questo sì: certe immagini urlano e non si fanno dimenticare, il suono delle sirene prima o poi smetterà di rieccheggiare nella notte e anche nella mente. E torneremo, ne sono certa, al nostro mondo, quello esterno, fatto di incontri, abbracci e voci dal vivo. 

Perché questo sentire la mancanza è stato amplificato per tutto: cose, luoghi e soprattutto per coloro che non possiamo incontrare. 

Nel frattempo resto a casa, vivo il mio isolamento un passo alla volta, non solo per il mio bene. E anche se mi sento ferma e un altro sole è tramontato fuori dalla mia finestra, so che alla paura non intendo lasciare nemmeno le briciole. Perché posso sentirmi un po’ persa ma sono sicura di non essermi smarrita.